Gli scorsi lunedì 21 novembre e 5 dicembre, il Mattiussi Pertini ha avuto l’opportunità di accogliere per una discussione e per un dibattito il dottor Taher Djafarizad, presidente dell’Associazione Neda Day, e la dottoressa Baharak Darvishi, attivista per i diritti umani in Iran. Questa attività è stata organizzata con lo scopo di raccontare la situazione iraniana, che oramai è nelle cronache di tutti i giorni.

Baharak Darvishi e Taher Djafarizad

L’incontro è iniziato spiegando che la situazione in Iran non è stata sempre così: fino al 1979 le donne erano libere di scegliere cosa indossare, di uscire e viaggiare. Ma in quell’anno le cose cambiarono con la rivoluzione islamica iraniana, dove la monarchia divenne una repubblica islamica: da allora le donne iniziarono a vedere i propri diritti soppressi. Dapprima fu imposto cosa indossare, successivamente limitata la partecipazione agli sport e vietato l’accesso ad alcune facoltà e di uscire senza il permesso di un membro maschile della famiglia.

Nei paesi con un regime teocratico le donne vengono considerate per il 50% rispetto a un uomo: infatti se una donna testimonia per un processo, la sua testimonianza vale la metà, oppure se eredita qualcosa ne riceve la metà. Tale fatto purtroppo non è solo un pensiero poiché è legalmente scritto e applicato. In questi paesi vige ancora la legge del delitto d’onore, infatti se l’uomo considera di essere stato umiliato dalla propria donna gli è concesso torturarla o addirittura ucciderla senza preoccuparsi di un’eventuale sanzione.

Gli eventi che portano una persona, soprattutto uomini, a commettere questo delitto sono diversi: il fatto che la donna non sia più vergine al matrimonio, che rifiuti il matrimonio combinato, che chieda il divorzio o la separazione, che tradisca il marito o che addirittura venga violentata. Tutto ciò accade ancora perché vengono trattate come inferiori e spesso il loro corpo viene visto solo come uno strumento o una proprietà. Ancora oggi ci sono donne che vengono non solo condannate a morte, ma anche uccise tramite lapidazione. Inoltre, c’è il fenomeno delle spose bambine: esse vengono considerate già adulte dall’età di nove anni e questo fa sì che le proprie famiglie diano in sposa le proprie figlie a uomini molto più grandi, in cambio di grosse somme di denaro. Se si rifiutano di sposare l’uomo scelto per loro, vengono sfigurate o uccise. Una di queste è stata addirittura decapitata da suo marito per essere stata trovata con l’uomo con cui voleva veramente stare, e la sua testa è stata portata in giro per la città come se fosse un trofeo.

Centinaia di migliaia di donne non sono libere di fare ciò che vogliono, perché dipendono dagli uomini che le accompagnano: mariti, padri, figli…

Fin da subito iniziarono le proteste e le donne scesero in piazza per protestare contro il regime. Con il tempo sono le reazioni sono diventate sempre più violente e con molte vittime, a causa dell’intervento della cosiddetta “polizia morale”. Dal 2014 la protesta iniziò anche sui social, grazie a Masih Alinejad che creò su Facebook una pagina chiamata “My stealthy freedom”, dove molte donne iraniane postarono le loro foto senza velo con i capelli sciolti, in segno di ribellione contro un regime opprimente. Una delle ultime vittime è stata Mahsa Amini, una ragazza di 22 anni che è stata arrestata lo scorso 13 settembre per aver indossato in modo scorretto l’hijab, ed è stata torturata fino alla morte.

Da ciò si è sollevata nel Paese un’ondata di proteste che non accenna a diminuire: moltissime donne si sono tolte il velo, l’hanno bruciato e si sono tagliate una ciocca di capelli come segno di protesta e di solidarietà. Anche molti uomini si sono schierati dalla parte di tutte queste donne che chiedono maggiore libertà e tra questi spicca la Nazionale di calcio iraniana che si è rifiutata di cantare l’inno ai Mondiali in corso.

La cosa che più colpisce il mondo è il fatto che questa rivolta sia portata avanti da molti giovani compresi tra i 10 e i 25 anni, che rischiano così la propria vita ogni giorno per avere un futuro migliore.

Il pubblico dell'auditorium della scuola in occasione dell'incontro sulla gioventù iraniana.

A fine incontro è sorta la domanda su come noi possiamo aiutare queste persone in questo momento: potremmo inviare una mail all’Unicef o, semplicemente, continuare a mantenere l’attenzione e sostenere moralmente i nostri coetanei iraniani, divulgando e facendo girare la voce sui social o semplicemente parlarne con più persone possibili, in modo tale che capiscano la gravità della situazione. Da loro non possiamo fare altro che prendere esempio: ci dimostrano che per ottenere ciò che più si vuole bisogna combattere e questo può significare anche rischiare di perdere ciò che più si ama. Potrebbe essere l’inizio di un lungo percorso che possiamo solo noi scegliere, per cambiare in meglio la società. In effetti, sembra che la situazione possa cambiare grazie alle proteste che si stanno svolgendo, ma è importante che ognuno di noi faccia la sua piccola parte. Anche tu, fa’ la differenza!

Giusy, Melissa, Sara, Elisa (IV B AFM)